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LIBERA EUTANASIA? Tre voci per dire no


Alberto Gambino:
«Si forza il nostro ordinamento»
Avvenire 28feb2017

Una storia già vista: il caso drammatico, la sua esibizione mediatica, la richiesta di una legge costruita in un certo modo proprio mentre il Parlamento ne discute, la pressione su un’opinione pubblica esposta per giorni a un bombardamento in una sola direzione. Passano le generazioni, ma i radicali – pur divisi e orfani del fondatore – non cambiano. Compresa l’autodenuncia del loro esponente Marco Cappato che ha preparato la morte di Fabiano Antoniani. Una strategia alla quale il giurista Alberto Gambino, presidente di Scienza & Vita, invita a non prestare il fianco. «L’obiettivo dei radicali – spiega – è certamente di creare un caso cercando di dimostrare quanto ‘l’Italia è indietro’ perché aiutando un suicidio si rischia l’incriminazione».

Non basta la morte di un uomo? Cosa si vuole ottenere?

Il massimo dell’attenzione intorno all’eventualità che l’aver accompagnato Fabo a morire all’estero integri gli estremi della compartecipazione a un reato. In Italia il suicidio assistito è sanzionato dal Codice penale, così come l’omicidio del consenziente. E se l’attività preparatoria dell’azione criminosa si compie in Italia va perseguita dalla legge italiana. Non sappiamo cos’è successo nei giorni precedenti alla conclusione di questa vicenda, ma se si dimostrasse che c’è stata un’induzione al suicidio organizzando il viaggio e i rapporti con la struttura in Svizzera, tutto ciò integra un reato.

Come incide il fatto che la morte sia avvenuta all’estero?

Se la preparazione dell’atto si svolge in Italia il diritto penale persegue in base alla nostra legge anche il compimento dell’intero fatto criminoso compiuto in Svizzera perché si è data assistenza a un atto suicidario. Per i penalisti non sarebbe strano che si aprisse un fascicolo su questa notizia di reato. Facciamo però attenzione, perché è proprio quello che i radicali vogliono.

È già partito il coro di chi chiede a gran voce una legge per casi come questo…

C’è un’evidentissima strumentalizzazione di questa vicenda, e purtroppo non solo da parte dei radicali. Il disegno di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, così com’è ora in Parlamento, non prevede forme né di eutanasia attiva né di suicidio assistito, ma – con tutti i suoi aspetti critici – contempla l’eutanasia passiva, ovvero la possibilità di interrompere la nutrizione assistita su richiesta del paziente senza neppure specificare che ci si dovrebbe trovare davanti a condizioni di terminalità. Nel caso di Fabo non si trattava di malato terminale, e neppure ci si è limitati a interrompere trattamenti sanitari o supporti vitali ma al paziente è stato sottoposto il preparato necessario per darsi la morte.

Cosa prevede il nostro ordinamento?

Dobbiamo rallegrarci che in Italia viga un sistema a impianto solidaristico: davanti a patologie e disabilità la Carta costituzionale ci indica la strada dell’accoglimento, del sostegno, dell’accompagnamento, del servizio, della cura. Non ci offre altri percorsi perché il principio cui è ispirata esprime una conquista di civiltà: significa che non Fabo ma le decine di migliaia di disabili in Italia non possono sentirsi un peso per la società, indotti a pensare che la loro non sia una vita piena di dignità. Elevare un caso specifico a regola in fatto di disabilità è insidioso e scorretto. Le leggi infatti dispongono in casi generali e astratti, se invece si vuole costruire una legge a partire da un caso-limite si va a intaccare un intero sistema dell’assistenza che invece fa leva sul principio solidaristico. Ci si confronti con le numerosissime situazioni di disabilità, si abbia il coraggio di chiedergli se possono accettare che per loro un giorno ci sia l’eventualità dell’eutanasia. È un discorso molto delicato, sul quale non sono ammessi infingimenti.

È immaginabile la legalizzazione della morte ‘a richiesta’?

Se la richiesta dopo questo caso è di inserire nella legge oltre all’eutanasia passiva già prevista – ma non accettabile – anche una forma di eutanasia attiva si finisce per ribaltare tutto lo spirito sul quale si regge il nostro ordinamento, e anche l’impalcatura della sanità italiana, che con tutti i suoi limiti è uno dei migliori sistemi al mondo. Al suo posto, si vorrebbe importare un sistema sul modello impostato sull’individualismo e a un’autodeterminazione assoluta non bilanciata da altri princìpi. È un sistema che lascia soli i suoi cittadini quando avrebbero più bisogno di non sentirsi tali.

Tra le libertà della persona andrebbe prevista anche quella di scegliere la propria morte?

Le libertà non le fanno né le eliminano le leggi ma sono un dato di natura, e non è detto debbano essere attuate dall’ordinamento. Non tutto ciò che è libero deve essere disciplinato da una legge. Se entrasse in vigore una norma che autorizza il suicidio assistito questo diventerebbe un diritto del paziente che potrebbe esigere dal medico un atto agli antipodi del solidarismo cui è ispirato il nostro sistema giuridico e sanitario. E inevitabilmente diventerebbe una prassi con la quale si risolvono situazioni ritenute un peso per la società.

 

Francesco D’Agostino:
«La morte non può essere un diritto ma è necessario trovare mediazioni»
Sole24ore 28feb2017

È un dato di fatto che la vicenda del Dj Fabo è divenuta un’ occasione di nuovi, aspri scontri bioetici ed ideologici, irrispettosi della tragicità della vicenda (che meriterebbe soprattutto compassione, silenzio e riflessione). Credo che la narrazione giornalistica e televisiva delle terribili sofferenze di Fabo abbia inevitabilmente, ma anche indebitamente,
attivato reazioni psicologiche ed emotive nelle persone, che sarebbe stato non solo meglio, ma anche doveroso evitare.
C’ è qualche possibilità di mediazione tra chi crede alla disponibilità e chi crede alla indisponibilità legale della vita? Penso di sì.
Innanzi tutto credo che sia condivisibile da parte di tutti un fermo no alla “morte come diritto”: anche i fautori più radicali dell’eutanasia ne predicano la legalizzazione solo in casi estremi, quelli di patologie terminali, tali da attivare gravissime sofferenze. Non si può assecondare la volontà di morire espressa da un malato di mente, da un minore, da un depresso. Il secondo punto che non dovrebbe attivare conflitti ideologici è il doveroso rispetto nei confronti del malato che rifiuti le terapie, comprese quelle salvavita (volontà peraltro garantita dal dettato costituzionale).

Il terzo è il no all’ accanimento terapeutico: vanno proibite le terapie futili, indebitamente invasive, sproporzionate rispetto alla situazione clinica del malato, ancorché terminale. In questo non può rientrare anche quello all’ alimentazione e all’ idratazione artificiali, quando siano vere e proprie forme di trattamento terapeutico (e non di mero sostegno vitale).
Il quarto punto su cui credo si possa trovare una mediazione è il sì alla palliazione, cioè alle diverse possibili tecniche mediche volte a non far soffrire o a far soffrire il meno possibile il malato: tra queste anche quella forma estrema di palliazione che è la “sedazione profonda”. Un quinto punto su cui non dovrebbe esserci dissenso è quello del riconoscimento giuridico della validità del “testamento biologico”. Le dichiarazioni anticipate di trattamento possono infatti aiutare il medico a sciogliere alcuni gravi dilemmi terapeutici, purché siano sottoscritte da persone consapevoli e informate e tali da non vincolare la doverosa autonomia scientifica e deontologica del terapeuta.

Un ultimo punto da sottolineare è quello che concerne il principio bioetico fondamentale, che stabilisce che tutti i malati (e in particolare quelli terminali) hanno il diritto di essere accompagnati nel loro doloroso percorso e di non essere mai abbandonati .
Dove nasce allora il dissenso? Nasce dal fatto che i fautori della disponibilità della vita minimizzano o addirittura negano il rischio concretissimo che una legge sul fine vita possa burocratizzare il processo del morire, mentre a loro volta i fautori dell’ indisponibilità della vita massimizzano tale rischio, al punto da arrivare (in alcuni casi) a proporre l’ accanimento terapeutico addirittura come un dovere. Sbagliano gli uni così come gli altri. Ma certamente non è in situazioni di concitazione emotiva e di propaganda ideologica, come quelle che stiamo vivendo in questi giorni, che si può arrivare a discutere su questi temi con la dovuta onestà intellettuale.

 

Emma Fattorini:
«Temi difficili, la legge non può risolvere tutto»

Unità 28feb2017

Senatrice Emma Fattorini, DJ Fabo, il giovane rimasto tetraplegico dopo un incidente, è andato a morire in Svizzera in
assenzadi risposte dallo Stato . Che sensazioni le suscita questa vicenda?
Dolore e impotenza. Sono casi estremi a cui si deve trovare il modo di consentire libertà di
scelta. Ma sono appunto casi estremi, anche numericamente , che non vanno strumentalizzati in nessun senso. La storia
tristissima di questo ragazzo non c’ entra con l’eutanasia.
Se si cede all’ onda emotiva, come successe con il caso Englaro, si riapre lo scontro
ideologico tra i fautori dell’ eutanasia e chi non vuole legiferare in nessun modo. E così, come
sempre in Italia, abbiamo la paralisi sui temi bioetici. Da tanti, troppi anni.

Infatti, otto anni dopo la morte di Eluana non esiste ancora una legislazione sul fine vita. Certo, sono casi diversi, ma resta il diritto di ognuno di mettere fine a una vita considerata insopportabile. O no?
È tempo anzi, siamo in ritardo di stabilire diritti e confini sul fine vita. Bisogna legiferare sulle Dat, anche se la parola non mi piace dichiarazioni anticipate di trattamento, ndr) evitando quella contrapposizione ideologica, quel bipolarismo etico così paralizzante.
Dobbiamo valorizzare gli elementi buoni del dibattito che si è svolto finora. A fatica ma ci sono stati: nel Comitato nazionale di bioetica e ora nel Cortile dei Gentili (coordinato dal cardinal Ravasi e Giuliano Amato, ndr), luoghi dove si confrontano tutte le posizioni con spirito costruttivo e dialogico.

Quali sono questi elementi buoni?
Ormai esiste consapevolezza di alcuni principi fondamentali. La difficoltà a legiferare su una materia nella quale il malato può cambiare idea, fino all’ ultimo momento. La valorizzazione del triangolo medico-paziente-famiglia ricreando una fiducia che spesso è venuta meno, o una sorta di commissione nei casi estremi. E poi la mediazione del tutore, della famiglia. Ancora: le cure palliative. Negli ultimi anni si è andati molto avanti su quel fronte perfezionando le tecniche per togliere il dolore, che vanno estese e rese più fruibili. Ma la base di tutto resta la relazione medico paziente che va umanizzata, non burocratizzata o resa diffidente da paure legali.

D’accordo, ma la legge non c’ è. Non è un clamoroso ritardo del Parlamento?
Sì, ed è gravissimo. Detto questo, la legge non risolve tutto. Non è un alibi per non legiferare ma serve consapevolezza che farlo in modo astratto non sempre aiuta. L’ esperienza di altri Paesi ci dice che occorre ascoltare la specificità dei singoli casi.

Vale a dire?
«Sulla base dei principi generali di bioetica, primo tra tutti il rapporto medico e paziente.

A quali condizioni l’ eutanasia può essere inserita nel nostro ordinamento?
Io sono contraria all’ eutanasia così come sono contro l’ accanimento terapeutico o la sopravvivenza in condizioni estreme come quelle di DJ Fabo. Un conto è l’ eutanasia a freddo, la decisione di non voler più vivere, che può veramente aprire ancora di più a una “cultura dello scarto”, che fatta in buona fede per difendere i diritti all’ autodeterminazione finisce per mettere a rischio le persone più deboli, povere e indifese. Altro è l’insostenibilità oggettiva delle condizioni di vita».

Come tenerne conto, in concreto?
Con delle forme di verifiche comuni, magari una commissione, senza lasciare solo chi soffre. In questo spicchio di legislatura c’ è margine per approvare la legge sul biotestamento? Il margine ci sarebbe, ma scontiamo l’ incertezza sulla durata del governo. A mio avviso, le leggi sulla
bioetica dovrebbero andare avanti. Senza strumentalizzazioni politiche, che su questi temi sarebbero addirittura immorali».

Marco Cappato, che ha accompagnato DJ Fabo a morire, rischia la prigione. È un altro aspetto sui cui si deve intervenire?
Come ho già detto, credo sia meglio evitare strumentalizzazioni e speculazioni. Non userei il dolore personale in chiave collettiva. Poi, sulle questioni specifiche decideranno i giudici.

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